M’horó, oltre l’ignoto.
Un altro artista che vuole rimanere non anonimo, perché un nome se lo è dato, M’horó, ma ignoto al di fuori del nome adottato. Ci stiamo facendo l’abitudine, ormai. Cominciarono così gli artisti clandestini e fuorilegge, gli street artists che una volta erano soprattutto writers e oggi lo sono sempre meno, all’inizio ignoti per necessità, volendo sfuggire alle conseguenze penali delle loro imprese, adesso, se dovessimo pensare al caso più eclatante, quello di Banksy, per ragioni che almeno in parte devono esulare da quelle originarie, entrando direttamente nel merito dell’operazione estetica (a pensarci bene, di Banksy conosciamo solo il brand, un marchio di fabbrica chiaramente individuabile per via di una certa uniformità di metodo, tecnica, formale, ideologica, sotto il quale, però, potrebbero celarsi più artisti, in grado di agire anche indipendentemente l’uno dall’altro).
Non è solo l’arte ad annoverare ignoti, esistendo, per esempio, anche in letteratura, e non certo dai soli tempi attuali. Ha fatto sensazione, di recente, il riconoscimento dell’identità dello scrittore italiano, morto Umberto Eco, di maggiore successo all’estero, la fantomatica Elena Ferrante, dietro la quale si cela Anita Raja, scovata attraverso la tracciatura degli incassi dei diritti di autore riguardanti la sua alter ego.
Credo che il voler essere artista ignoto, al di là dei casi precedentemente citati, intenda soddisfare due esigenze di massima. Da una parte, attribuire particolare importanza alla libertà d’azione, facendo della propria riservatezza uno strumento per poterla aumentare quanto più possibile. Dall’altra, e questo mi pare un aspetto più intrigante, esaltare al massimo grado la centralità dell’opera all’interno della propria proposta artistica, riducendo il ruolo dell’autore, per dirla con Gilles Deleuze, a una sua semplice funzione.
La mentalità romantica, tutt’altro che in via di sparizione dal pianeta, malgrado i due secoli di vita alle spalle, ci ha abiutato a vedere nell’opera, da cultrice del mito individualista del genio, il segno di una precisa personalità, di una vita, una mente, una sostanza interiore. Ciò ha portato, nella sua degenerazione, dominante nel corso degli ultimi centoventi anni almeno, a spostare tutto il baricentro dell’attenzione verso l’artista, invogliato a sviluppare in senso autoreferenziale il suo egotismo, di cui l’opera diventa una sua manifestazione.
Più sinteticamente di Deleuze, é stato Dino Risi a dichiarare, forse meglio di qualunque altro, quanto fosse divenuta insopportabile, a un certo punto della nostra epoca, l’opera d’arte in quanto forma di narcisismo autoriale; “quando vedo un lavoro di Nanni Moretti – ha detto una volta – mi viene sempre da pensare: scansati, e fammi vedere il film.” Ecco, M’horó ha deciso di scansarsi, e di farci vedere ciò che ha creato come se chi mai si nascondesse dietro quell’etichetta non fosse parte integrante di esso, chiedendoci, quindi, di giudicarlo nella sua valenza di espressione autonoma e autosufficiente, libera da qualunque vincolo di biografismo.
Non dobbiamo preoccuparci, con le opere di M’horó di sapere chi c’é dietro, da dove viene fuori e cosa gli passa per la testa, tutte informazioni di cui, per la maggior parte degli autori contemporanei, si farebbe volentieri a meno, nella coscienza, difficilmente conciliabile con l’ideologia romantica, ma facilmente verificabile nella pragmatica dell’arte di ogni tempo, che grandi opere possono essere generate anche da personalità per nulla fuori dal comune, qualche volta perfino peggio della media, capaci solo di esprimersi in un modo avente il pregio di suscitare speciale interesse negli altri. No, con M’Horo’ c’é solo da vedere cosa c’é davanti, punto e basta: é un atto di grande franchezza intellettuale, che rinuncia alla facile protezione dell’art pour l’artiste e passa la palla del gioco a chi sta dall’altra parte rispetto a sé, riconoscendone il ruolo primario, ineludibile, quello che alla lunga finisce per determinare i valori critici di riferimento. Solo per questo, M’horó meriterebbe il massimo rispetto.
C’é, poi, la proposta artistica, altrettanto onesta. Non rivendica, nella concezione, primigenie assolute, rifacendosi a precisi precedenti storici (tanto per chiarire le idee, non il ready made dell’orinatoio di Duchamp, ma il remade della sua ruota di bicicletta innestata sullo sgabello, così come il ferro da stiro con i chiodi di Ray, o il manubrio e il sellino di bicicletta, uniti a mò di bucrano, di Picasso; non tanto il Dada storico, quanto la rivisitazione che ne fece il Nouveau Réalisme con le voitures compresses di César, per esempio, sculture che prendono atto della materialità industriale rielaborando espressivamente i processi di rottamazione, producendo una forma di Junk Art che é parallela a quanto aveva fatto, in un versante, però, decisamente più pittorico, Robert Rauschenberg), ma pretende ugualmente di essere considerata per la validità delle soluzioni ideate, come varianti originali di un discorso che si ritiene, evidentemente, non abbia smesso di esercitare positive ripercussioni nell’odierno.
Certo, non si tratta di una mera riproposizione, c’é da prendere atto che di tempo, rispetto alle Compressions di César, ne é passato, e quello che allora era un tenere pienamente il passo della contemporaneità, seppure in maniera non certo supina, esprimendo, anzi, un atteggiamento critico nei confronti di uno dei suoi aspetti più caratteristici, la civiltà dei consumi, nella Junk Art di M’horó assume il carattere quasi di un’archeologia industriale, prendendo di mira elementi radiali e serpentine destinati, probabilmente, a uscire presto dalla produzione, superati da altri tecnologicamente più evoluti, che vengono sottoposti a un’operazione prevalente, la deformazione per via di torsione, allungamento o perforazione, a volere infliggere ai malcapitati delle torture rigeneranti, un pò come capitava a certi santi martiri che dal supplizio ne uscivano rinnovati e spiritualmente edificati. E se cinquanta anni fa, in ambito artistico, il riciclo del rifiuto poteva essere considerato poco più di una provocazione vogliosa di choc, oggi si connota, inevitabillmente, secondo una chiave diversa, maturata nel frattempo all’ombra dell’istanza ecologista, facendo della creazione artistica non solo un atto di natura estetica, ma anche morale. Il bello, insomma, che aspira di nuovo al buono, il piacere degli occhi, del tatto, della mente, che si mette al servizio anche di ciò che è socialmente utile.
Vittorio Sgarbi