“ YES, WE ARE BUILDING STEAM”: M’ HORO E LA RIVISITAZIONE DELLO STEAMPUNK. (Maria Elena Loda).
“ I made my own machine
Yes, we’re building steam
I hate the same routine.” ( Abney Park, “ Building Steam.” )
In Principio era il Vapore, coi sui treni sbuffanti, i suoi dirigibili ad elio, le sue automobili fumose, e la sua vocazione di anacronistica tecnologia vittoriana. Poi Giulio Verne disse: ‘ E sia M’ Horo!’, e M’ Horo fu.
Ma potrebbe essere stato anche il Verbo di Mary Shelley, o di Arthur Conan Doyle a portare alla luce la vivacità, ad un tempo stesso fanciullesca e creativa, di questo misterioso personaggio che nel nome nasconde sia l’ oro, che l’ Horo, il Falco Solare egiziano, portatore di nuove idee e nuovi mondi: o potrebbero essere stati gli architetti Laloux e Gae Aulenti, indimenticabili artefici della vittorianissima Gare d’ Orsay; sta di fatto che, se si guardano le opere di M’ Horo, con le sue contorsioni di ferraglia, le sue estroflessioni plastiche, le sue anticaglie industriali ucroniche, rivisitate in una nuova facies interpretativa, pian piano esce una muta storia di universi alternativi, congegni meccanici e a orologeria, macchine differenziali, lamine radianti cesellate. Si presenta dunque come il tripudio dell’ officina meccanica, dove olio, bulloni e chiavi inglesi la fanno da padroni, in opposizione all’elettronica computerizzata cyberpunk del software o del digitale 3D, una vena manuale e artigianale verso il gusto alla manifattura eccentrica in cui non si può non cogliere lo spirito remoto dello steampunk, azionato dalla forza motrice del vapore, e dall’ ingegno fervido dell’ Arte di Arrangiarsi.
Del resto, questa è la Filosofia del Riciclo, il Genio che sta alla base di tutta l’ operosità del genere inventato per la prima volta dal romanziere Giulio Verne con il suo ‘ Ventimila Leghe Sotto i Mari’ o il suo ‘ Viaggio sulla Luna’.
Che M’ Horo, come un nuovo Capitano Nemo, abbia accettato di seguire i passi demiurgici del Dio Horus sul Nautilus di un’ Arte del tutto stravagante, si vede anche dalla sua biografia: nasce, o meglio, ri- nasce dalle ceneri come una Fenice il 26 maggio 2016, data in cui, spinto dall’ entusiasmo di Antonio Falbo, accetta di dare una cesura completa con la sua produzione precedente, e di ‘ immolare alle fiamme’ tutti i suoi quadri: un ideale falò delle vanità che serve a propiziargli la nuovissima spinta creativa verso l’ Ignoto della Prima Rivoluzione Industriale- un salto all’ indietro, per andare avanti.
Questo fuoco- plastico- alchemico, fatuo nello steso tempo- è forse la Materia Prima che l’ Artista utilizza per forgiare le sue sinuose opere, che a volte si deformano con le graziosità delle onde di Gaudì?
Non lo sappiamo, perché M’ Horo se ne tace: ma ecco che dall’ espressività classica, quest’ artista, di cui non conosciamo biograficamente nulla, ma proprio nulla- se sia uomo, donna, giovane, vecchio, bianco, di colore, italiano, straniero- fa il salto tanto atteso: le sue lamine di automobile, i suoi radiatori ripescati e riverniciati, vengono stravolti, girati, ritorti, fino a somigliare proprio al Tempo ucronico delle clessidre, fino a prendere la fisionomia di corsetti di metallo per signore ottocentesche che sanno trattenere il respiro, fino a raggomitolarsi in sfere deformi che ricordano astrolabi bizzarri: ghiribizzi a mezza via tra arte vera e propria e la stamberga dello straccivendolo, in una summa finale ricca di fascinazioni fantastico- utopistico.
Chi scrive ha sentito parlare di M’ Horo durante un pomeriggio piovoso nella Galleria ‘ Il Minotauro’, dopo una collaborazione su altro artista: in quell’ occasione il Prof. Antonio Falbo si mise a parlare estatico di questo personaggio dal linguaggio innovativo e duttile, la sorpresa più affascinante in un panorama contemporaneo ormai molto statico negli stilemi e privo di guizzi rinfrescanti.
Come scrive- e ci descrisse- Antonio Falbo, si tratta di “ Un evento clamoroso se visto sulla scia retrospettiva di ciò che accadde nel 1920 a tal Guglielmo Sansoni. Egli fece costruire una bara con tanto di annunci e affissione in città di manifesti di morte riportanti il proprio nome e cognome, data e ora delle esequie. Davanti alla sua casa facevano sfoggio corone di fiori e nastri viola; in breve tempo amici e parenti si recarono ad onorare la salma e sopraggiunsero manifestazioni di cordoglio da tutte le parti. Ad un certo punto, avvenne il colpo di scena! Un uomo con tanto di bombetta e bastone spuntò d’improvviso: era proprio Guglielmo che, con fare gradasso, esclamava che da quel momento era morto Sansoni per far nascere un nuovo artista col nome di “TATO”. Eravamo all’epilogo della grande spinta futurista e, Marinetti, con il suo severo e autorevole giudizio, selezionava gli artisti indicando loro nuovi percorsi per l’arte.”
M’ Horo è tipo schivo, poco propenso ad aprire le porte del proprio atelier per svelare il suo mondo: a differenza di molti creativi sulla cresta dell’ onda, non desidera pubblicità personale, nemmeno vuole far conoscere il proprio nome di battesimo, da qui la necessità di un nome d’ Arte che fosse breve ed essenziale, seppur orecchiabile. Unica informazione che ci è trapelata su quest’ astro nascente nel panorama artistico coevo da Antonio Falbio che lo rappresenta, riguarda il suo mentore, il compianto Maestro Angelo Brescianini, con cui fece i primi collages e assemblaggi.
Che in M’ Horo ci sia indubitabilmente una visione distopica, lo si avverte dalla nostalgia verso l’ amabile riscoperta di quegli oggetti demodé in cui la gente comune non vedrebbe niente altro che chincaglierie da buttare: questa melancolia verso la bottega del rigattiere, che offre soluzioni passate e mai del tutto esplorate, è la stessa che inconsciamente anela a ritrovare l’ epoca vittoriana di fine Ottocento o i primi due decenni del 1900, epoca Liberty in cui comparvero le prime macchine a vapore, e dove il leggendario dirigibile Roma, nato dai progetti di Umberto Nobile, introduceva un cambiamento notevole nel modo di concepire il viaggio aereo. Un’ epoca di orizzonti ampliati, di grandi speranze ed aspettative, con Italo Balbo che faceva la traversata atlantica in quell’ impresa del 1933 ricordata come Crociera Aerea del Decennale, facendo sognare la Nazione.
I telai laminati di M’ Horo sono lì a dirci silenziosamente che queste epoche, in cui la potenza ecologica del vapore emesso dai radiatori ad acqua surriscaldati dopo un viaggio in Isotta Fraschini, sembrava volersi opporre al carbone prima, e al petrolio poi, avrebbero meritato una chance in più, un maggiore approfondimento, e ora che siamo nell’ epoca delle energie verdi, magari anche un recupero.
In quell’ innocenza tipica dell’ esploratore del mondo, dobbiamo vedere anche gli influssi del dadaismo primordiale, con quell’ importanza data alla combinazione, scombinazione e ricombinazione come in un gioco privo di senso o meglio, con un senso casuale ed ermetico, un senso plastico, in una totale libertà di reinvenzione che non tiene conto né di leggi né di stilemi, men che meno di giudizio; e nel feticismo del curioso che non butta mai via niente ma anzi recupera tutto il recuperabile, dobbiamo scorgere le ossessioni di Picasso, di Duchamp, di Burri, di Picabia, di Braque: é una sorta di trasmutazione scultorea, qui il rifiuto diviene Arte, ma lo diviene senza pensarci troppo. E’ il Futurismo alla vecchia maniera, ma alleggerito di molto, dotato di un respiro aereo, e di uno sprazzo di luce, che spesso nelle opere degli ‘ amanti del trash rivisitato’ si fatica a trovare.
E’ pur vero, si potrà obiettare, che nella Storia della Civilizzazione, ed ancor più nella Cultura dell’ Arte, il riuso dei materiali è un dato di fatto: si pensino alle basiliche imperiali antiche, poi divenute chiese cristiane. Ma qui non abbiamo la spazzatura in sé per sé, come nei provocatori avanzi dell’ arte futurista moderna: qui abbiamo lo scarto sublimato, elevato a concetto rimembrante di un tempo- quello dello steampunk- che a mezza via tra passato e futuro non riesce mai a trovare il suo inizio e la sua fine sul calendario, ma si ripropone avanti e indietro sulla linea cronologica, con una ciclicità costante.
M’ Horo ci prova, si cimenta: le sue lamine recuperate hanno un sapore vittoriano ma anche post apocalittico, fanno pensare al poema di Sir Thomas Eliot ‘ The Waste Land’, la Terra Devastata, hanno il tocco di quell’ ancestralissima e picassiana ‘ Testa di toro’, che riproduce un antico animale totem delle culture mediterranee, usando però un sellino ed un manubrio arrugginiti trovati in chissà quale discarica di periferia.
In M’ Horo, nei suoi radiatori vecchi eppure inargentati di bello, c’ è quella grazia arcana che socchiude la porticina ad un nuovo modo di intendere il Viaggio Artistico.
E’ forse questo il motivo per cui, al suo apparire, la critica si è subito interessata alla sua esperienza compositiva, salutandolo come un’ avanguardia da seguire con attenzione, affascinati anche dall’ alone di riservatezza che circonda quest’ eclettico creativo. All’ inaugurazione, una fanciulla con maschera, un ragazzo di colore, un giovane cinese, un anziano sapiente, e altre figure sceniche saranno presenti tra gli astanti, fingendosi di volta in volta l’ autore.
Dove sarà mai, però, lui? Chi sarà mai? Sarà forse compito degli ospiti della mostra scoprirlo, oppure Antonio falbo ci darà qualche indizio in più, magari facendoci proprio incontrare il Maestro sotto mentite spoglie, come un visitatore comune che guarda se stesso riflesso nelle proprie opere?
Lo vedremo al momento opportuno: per adesso parlano per lui i suoi lavori.
Waste dicono gli anglofoni, e intendono spreco e rifiuto insieme: ma con M’ Horo non stiamo sprecando, e nemmeno usando rifiuti: stiamo rispolverando i macchinari avariati per farli ripartire nella dimensione del sogno steampunk. Stiamo ‘ costruendo vapore’. Benvenuti a bordo.